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Volodyk - Paolini3-Brisingr

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Название:
Paolini3-Brisingr
Автор
Издательство:
неизвестно
ISBN:
нет данных
Год:
неизвестен
Дата добавления:
5 октябрь 2019
Количество просмотров:
88
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Volodyk - Paolini3-Brisingr

Volodyk - Paolini3-Brisingr краткое содержание

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Anche se a Saphira la sua proposta non piacque, acconsentì e atterrò vicino a un boschetto di salici sulla sponda di un torrente. Quando smontò, Eragon scoprì di avere le gambe così rigide che stava in piedi a stento. Tolse la sella a Saphira, poi srotolò il sacco da notte sul terreno accanto a lei e si raggomitolò con la schiena contro il suo corpo caldo. Non gli serviva una tenda: Saphira lo riparava con un'ala come una mamma falco che protegge la sua covata. Ben presto i due scivolarono nei rispettivi sogni, che si mescolarono in strani modi meravigliosi, poiché le loro menti restavano unite anche nel sonno.

Non appena il primo raggio di luce comparve a est, Eragon e Saphira si rimisero in viaggio, volando alti sopra le pianure verdeggianti.

A metà mattina cominciò a soffiare un feroce vento contrario che li rallentò di molto. Malgrado i suoi sforzi, Saphira non riusciva a innalzarsi al di sopra del vento e per tutto il giorno fu costretta a lottare contro la corrente d'aria avversa. Era una fatica immane, e sebbene Eragon le avesse infuso tutta l'energia che poteva senza rischiare troppo, nel pomeriggio era così provata dalla stanchezza che scese e atterrò su un piccolo poggio isolato nella prateria. Sedette immobile, con le ali distese per terra, ansante, scossa dai brividi.

Sarà meglio fermarci qui per la notte, disse Eragon.

No.

Saphira, non sei in condizione di proseguire. Accampiamoci finché non ti riprendi. Chissà, il vento potrebbe calare.

Eragon sentì l'umido raspare della sua lingua mentre si leccava le labbra, poi l'ansito dei suoi polmoni che lavoravano come mantici.

No, disse lei. Su queste pianure potrebbe soffiare per settimane, o per mesi addirittura. Non possiamo aspettare che si calmi.

Ma...

Non mi arrenderò solo perché sono stanca, Eragon. La posta in gioco è troppo alta.

Allora lascia che ti dia l'energia di Aren. Questo anello ne contiene abbastanza da sostenerti da qui fino alla Du Weldenvarden.

No, ripeté lei. Risparmia Aren per quando non avremo altre risorse. Mi riposerò nella foresta. Potremmo avere bisogno di Aren da un momento all'altro: non dovresti sprecarlo soltanto per alleviare il mio disagio.

Non sopporto di vederti soffrire così.

Un debole ringhio sfuggì dalle fauci di Saphira. I miei antenati, i draghi selvatici, non si sarebbero fatti intimorire da un venticello del genere, e nemmeno io cederò. Detto questo, spiccò il volo e si tuffò di nuovo nella bufera.

Mentre il giorno volgeva al termine e il vento ancora ululava intorno a loro, opponendosi a Saphira come se il destino avesse deciso di non farli mai arrivare alla Du Weldenvarden, Eragon pensò alla nana Glûmra e alla sua fede nelle divinità dei nani, e per la prima volta in vita sua provò il desiderio di pregare. Ritirandosi dal contatto mentale con Saphira - che era così stanca e preoccupata che non ci fece caso - mormorò: «Gûntera, re degli dei, se esisti, e se puoi sentirmi, e se ne hai il potere, allora ti prego, ferma questo vento. So che non sono un nano, ma re Rothgar mi ha adottato nel suo clan e credo che questo mi dia il diritto di pregarti. Gûntera, ti prego, dobbiamo raggiungere la Du Weldenvarden al più presto, non solo per il bene dei Varden, ma anche per il bene del tuo popolo, i knurlan. Ti prego, ti supplico, ferma questo vento. Saphira non può resistere ancora a lungo.» Poi, sentendosi un po' sciocco, Eragon toccò la coscienza di Saphira e trasalì sentendo il bruciore dei suoi muscoli affaticati.

Più tardi, quella notte, quando tutto era freddo e buio, il vento si calmò. Tornò a farsi vivo di tanto in tanto con qualche sporadica folata.

Quando si fece di nuovo mattina, Eragon guardò in basso e vide la dura, arida terra del deserto di Hadarac. Maledizione, imprecò: non erano arrivati lontano quanto aveva sperato. Non arriveremo entro oggi a Ellesméra, vero?

No, a meno che il vento non decida di soffiare in direzione contraria e portarci sulla sua schiena. Saphira continuò a battere le ali con fatica per qualche minuto, poi aggiunse: Però se non avremo altre spiacevoli sorprese dovremmo raggiungere la Du Weldenvarden entro sera.

Eragon borbottò, contrariato.

Atterrarono solo due volte quel giorno. Mentre erano a terra, Saphira divorò un paio di anatre che aveva ucciso con una vampata di fuoco, ma a parte quello non mangiò altro. Per risparmiare tempo, Eragon mangiò la propria razione in sella.

Come aveva predetto Saphira, la Du Weldenvarden comparve in lontananza proprio mentre il sole stava per tramontare: un'immensa distesa verde dove all'esterno predominavano alberi dalle foglie decidue - querce, faggi e aceri - che, procedendo via via verso l'interno, cedevano il posto ai maestosi pini che erano l'anima della foresta.

Il crepuscolo era sceso sul paesaggio quando arrivarono al limitare della Du Weldenvarden e Saphira scivolò in un dolce atterraggio sotto i rami distesi di un'imponente quercia. Ripiegò le ali e rimase seduta, troppo stanca per proseguire. La lingua cremisi le penzolava dalla bocca. Mentre lei riposava, Eragon prese ad ascoltare il fruscio delle foglie sopra la sua testa e il bubbolio dei gufi e lo stridio degli insetti serali.

Quando si fu ripresa, Saphira s'incamminò e passò fra due gigantesche querce coperte di muschio, entrando a piedi nella Du Weldenvarden. Gli elfi avevano reso impossibile per qualunque essere vivente o inanimato entrare nella foresta con mezzi magici, e poiché i draghi non si affidavano solo al proprio corpo per volare, Saphira non poteva entrare in volo, altrimenti le sue ali avrebbero ceduto e sarebbe precipitata.

Qui dovrebbe essere abbastanza lontano, disse Saphira, fermandosi in un piccolo prato a diverse centinaia di piedi dal perimetro della foresta.

Eragon slegò le cinghie che gli serravano le gambe e scivolò lungo il fianco di Saphira. Setacciò il prato finché non trovò una zolla di terra nuda. Con le mani scavò una buca profonda un piede e larga la metà. Richiamò in superficie dell'acqua perché riempisse la buca, poi pronunciò un incantesimo di divinazione.

L'acqua tremolò e acquistò un morbido bagliore dorato, poi sulla superficie apparve l'interno della capanna di Oromis. L'elfo dai capelli d'argento sedeva al tavolo della cucina, intento a leggere una pergamena. Oromis levò gli occhi verso Eragon e annuì, senza tradire alcuna sorpresa.

«Maestro» disse Eragon, e voltò la mano per portarsela al petto.

«Salute a te, Eragon! Vi stavo aspettando. Dove siete?»

«Io e Saphira abbiamo appena raggiunto la Du Weldenvarden... Maestro, so che abbiamo promesso di tornare a Ellesméra, ma i Varden distano solo un paio di giorni dalla città di Feinster e sono vulnerabili senza di noi. Non abbiamo il tempo di volare fino a Ellesméra. Puoi rispondere alle nostre domande adesso, attraverso la pozza d'acqua magica?»

Oromis si appoggiò alla sedia, il volto spigoloso segnato da un'espressione seria e pensierosa. Poi disse: «Non ti posso istruire a distanza, Eragon. Intuisco alcune delle cose che vorresti chiedermi, e sono argomenti che dobbiamo affrontare di persona.»

«Maestro, ti prego. Se Murtagh e Castigo...»

«No, Eragon. Capisco le ragioni della tua fretta, ma i tuoi studi sono importanti quanto proteggere i Varden, se non di più. Se non possiamo farlo in modo appropriato, tanto vale che non lo facciamo affatto.»

Eragon sospirò e incurvò le spalle. «Sì, maestro.»

Oromis annuì. «Glaedr e io vi aspetteremo. Volate veloci e sicuri. Abbiamo molte cose di cui parlare.»

«Sì, maestro.»

Stordito ed esausto, Eragon spezzò l'incantesimo. L'acqua fu riassorbita dalla nera terra. Il giovane si prese la testa fra le mani, fissando la macchia di terra umida fra i suoi piedi. Il respiro di Saphira risuonava forte e affannato al suo fianco. Immagino che dobbiamo andare, disse. Mi dispiace.

Il respiro di lei s'interruppe per un momento mentre si leccava le labbra. Tutto a posto, non sto per svenire.

Eragon alzò lo sguardo su di lei. Sei sicura?

Sì.

A malincuore, Eragon si alzò e si arrampicò sul dorso della dragonessa. Visto che andiamo a Ellesméra, disse, stringendosi le cinghie intorno alle gambe, tanto vale far tappa all'albero di Menoa. Forse capiremo che cosa voleva dire Solembum. Avrei proprio bisogno di una nuova spada.

Quando Eragon aveva incontrato Solembum per la prima volta a Teirm, il gatto mannaro gli aveva detto: Quando giungerà il momento e ti servirà un'arma, guarda sotto le radici dell'albero di Menoa. Poi, quando tutto ti sembrerà perduto e il tuo potere non basterà, vai alla rocca di Kuthian e pronuncia il tuo nome per schiudere la Volta delle Anime. Eragon ancora non sapeva dove si trovasse la rocca di Kuthian, ma durante il loro primo soggiorno a Ellesméra lui e Saphira avevano avuto diverse occasioni di esaminare l'albero di Menoa. Non avevano però scoperto niente che indicasse loro la posizione dell'ipotetica arma: muschio, terra, corteccia e qualche formica erano le uniche cose che avevano visto fra le radici.

Può darsi che Solembum non parlasse di una spada, osservò Saphira. I gatti mannari amano gli indovinelli quasi quanto i draghi. Se mai esiste, quest'arma potrebbe essere un pezzo di pergamena con un incantesimo, oppure un libro, o un dipinto, o un pezzo appuntito di roccia, o chissà cos'altro. Di sicuro non sarà facile recuperarlo.

Di qualsiasi cosa si tratti, spero di riuscire a trovarla. Chissà quando riusciremo a tornare a Ellesméra.

Saphira spostò un albero caduto che le intralciava il cammino, poi si accovacciò e dispiegò le ali vellutate, i possenti muscoli delle spalle che si contraevano. Eragon lanciò un grido strozzato e si afferrò al pomolo della sella quando lei spiccò un balzo vertiginoso d'inaudita potenza, librandosi sulle chiome degli alberi.

Virando sul mare di rami ondeggianti, la dragonessa puntò a nord-ovest e cominciò a volare verso la capitale degli elfi con un battito d'ali lento e possente.

♦ ♦ ♦

SCONTRO DI ARIETI

L'assalto alla carovana degli approvvigionamenti si svolse come aveva pianificato Roran: tre giorni dopo aver lasciato l'accampamento dei Varden, lui e i suoi compagni a cavallo piombarono dal ciglio di un dirupo e attaccarono sul fianco il convoglio di carri. Nel frattempo, gli Urgali balzarono fuori da dietro i massi sparpagliati sul fondovalle e attaccarono l'avanguardia del convoglio, obbligandolo a fermarsi. I soldati e i conducenti dei carri reagirono con coraggio, ma l'imboscata li aveva colti ancora insonnoliti e disorganizzati, e ben presto le forze di Roran ebbero la meglio. Nell'attacco non morirono né umani né Urgali, e ci furono soltanto tre feriti: due umani e un Urgali.

Roran uccise diversi soldati, ma perlopiù restò in disparte, concentrato a impartire ordini come era suo compito. Era ancora rigido e dolorante per le frustate, e non voleva sforzarsi più del necessario nel timore che le croste che gli ricoprivano la schiena si riaprissero.

Fino a quel momento non aveva avuto difficoltà a mantenere la disciplina fra i venti umani e i venti Urgali. Anche se era evidente che nessuno dei due gruppi si fidava dell'altro - un atteggiamento che lui condivideva, perché guardava gli Urgali con lo stesso sospetto e disgusto di ogni uomo cresciuto dalle parti della Grande Dorsale - erano riusciti a lavorare insieme per tre giorni senza che nessuno alzasse mai nemmeno la voce. Roran sapeva che il fatto che i due gruppi fossero riusciti a collaborare aveva poco a che vedere con il suo valore di capitano. Nasuada e Nar Garzhvog avevano scelto con gran cura i guerrieri che dovevano viaggiare con lui, selezionando solo i più veloci con le armi, quelli dotati di buonsenso e soprattutto di un carattere saldo e pacato.

Tuttavia, dopo l'attacco al convoglio, mentre i suoi uomini erano impegnati ad accatastare i corpi dei soldati e dei conducenti, cavalcando su e giù lungo la linea dei carri per controllare il lavoro Roran sentì dei gemiti provenire dalla coda della carovana. Pensando che un altro contingente di soldati li avesse colti di sorpresa, urlò a Carn e ad altri uomini di raggiungerlo, poi diede di sprone nei fianchi di Fiammabianca e galoppò verso la retroguardia dei carri.

Quattro Urgali avevano legato un soldato nemico al tronco nodoso di un salice e si stavano divertendo a colpirlo e a punzecchiarlo con le spade. Lanciando un'imprecazione, Roran saltò giù da Fiammabianca e con un solo colpo di martello pose fine all'agonia dell'uomo.

Una nuvola di polvere investì il gruppo quando Carn e altri quattro guerrieri sopraggiunsero al galoppo. Tirarono le redini dei loro destrieri e si schierarono ai lati di Roran, tenendo le armi pronte.

L'Urgali più grosso, un ariete di nome Yarbog, si fece avanti. «Fortemartello, perché hai interrotto il nostro divertimento? Lo avremmo fatto ballare ancora per un po'.»

A denti stretti Roran rispose: «Finché siete sotto il mio comando non torturerete i prigionieri senza motivo. Mi avete capito? Molti di questi soldati sono stati costretti con la forza a servire Galbatorix. Molti di loro sono nostri amici, o familiari, o vicini, e anche se dobbiamo combatterli, non vi permetterò di trattarli con inutile crudeltà. Se non fosse per un capriccio del fato, ciascuno di noi umani potrebbe trovarsi al loro posto. Non sono loro il nostro nemico; Galbatorix lo è, ed è anche il vostro.»

L'Urgali corrugò la fronte sporgente, oscurando i gialli occhi infossati. «Ma voi li uccidereste comunque, no? E allora perché noi non possiamo divertirci a vederli contorcersi e ballare prima?»

Roran si domandò se il cranio dell'Urgali fosse troppo spesso per spezzarlo con una martellata. Sforzandosi di contenere la rabbia, disse: «Perché è sbagliato!» Poi indicò il soldato morto. «E se lui fosse stato uno della vostra stessa razza, uno di quelli stregati dallo Spettro Durza? Avreste tormentato anche lui?»

«Certo» disse Yarbog. «Uno dei nostri avrebbe voluto essere tormentato dalle nostre spade in modo da provare il proprio coraggio prima di morire. Non è lo stesso per voi umani senza corna, o non sapete sopportare il dolore?»

Roran non sapeva quanto potesse essere grave fra gli Urgali chiamare qualcuno senza corna, ma sapeva anche che mettere in dubbio il coraggio di qualcuno era offensivo sia per gli Urgali che per gli umani. «Chiunque di noi è capace di sopportare il dolore in silenzio meglio di voi, Yarbog» disse, stringendo la presa su martello e scudo. «Ora, a meno che tu non voglia provare un dolore che non ti immagini neppure, consegnami la spada, poi slega quel poveraccio e portalo fra gli altri corpi. Dopodiché vai ad accudire i cavalli da soma. Te ne dovrai occupare finché non torneremo dai Varden.»


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