Volodyk - Paolini2-Eldest
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Volodyk - Paolini2-Eldest краткое содержание
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I muscoli del collo di Oromis si tesero, e le sue spalle divennero di granito; persino il respiro dell'elfo si fermò, prima che esclamasse, indignato: «Non imparerai mai il rispetto, Eragon-vodhr? E sia!» Pronunciò quattro parole nell'antica lingua a voce così bassa che Eragon non riuscì a capirle.
Il giovane lanciò un grido allarmato quando le sue gambe subirono una pressione che gli strizzava i polpacci tanto da rendergli impossibile camminare. Le cosce e il torso erano liberi di muoversi, ma per il resto era come avviluppato in un blocco di malta rappresa.
«Liberati» disse Oromis.
Era una sfida con cui Eragon non si era mai cimentato prima: reagire all'incantesimo di un altro. C'erano due modi per recidere gli invisibili legacci che lo paralizzavano. Il più efficace sarebbe stato sapere come Oromis lo aveva immobilizzato - se agendo direttamente sul suo corpo o usando una fonte esterna - perché in questo modo avrebbe potuto indirizzare l'elemento o la forza per disperdere il potere di Oromis. Oppure poteva usare un incantesimo vago e generico per bloccare qualunque cosa Oromis stesse facendo. Lo svantaggio di questa tattica era che avrebbe portato a uno scontro diretto di potenza fra di loro. Doveva succedere, prima o poi, pensò Eragon. Non aveva alcuna speranza di prevalere su un elfo.
Mettendo insieme la frase necessaria, disse: «Losna kalfya iet.» Libera i miei polpacci.
La quantità di energia che abbandonò il suo corpo fu più grande di quanto avesse previsto; dalla moderata stanchezza per la crisi della mattina e gli esercizi della giornata passò alla sensazione di aver camminato su un terreno accidentato fin dall'alba. Poi la pressione svanì all'improvviso, facendolo barcollare mentre recuperava l'equilibrio. Oromis scrollò il capo. «Sciocco» disse, «molto sciocco. Se mi fossi impegnato davvero a mantenere l'incantesimo, ti saresti ucciso. Non usare mai gli assoluti.»
«Gli assoluti?»
«Non formulare mai un incantesimo che abbia soltanto due risultati: successo o morte. Se un nemico ti avesse intrappolato le gambe e fosse stato più forte di te, avresti speso tutte le tue energie per rompere il suo incantesimo. Saresti morto senza alcuna possibilità di interrompere il tentativo quando ti fossi accorto che era inutile.» «Come faccio a evitarlo?» chiese Eragon.
«È più sicuro fare dell'incantesimo un processo che puoi concludere a tua discrezione. Invece di dire lìbera i miei polpacci, che è un assoluto, avresti potuto dire riduci la magia che mi blocca i polpacci. Un po' prolisso, lo ammetto, ma in questo modo avresti potuto stabilire la quantità di incantesimo da ridurre per poi decidere se era sicuro eliminarlo del tutto. Proviamo di nuovo.»
Nell'istante in cui Oromis mormorò la sua inafferrabile invocazione, la pressione tornò a serrare le gambe di Eragon. Si sentiva così stanco che dubitava di poter opporre resistenza, ma provò ugualmente a evocare la magia. Prima ancora che l'antica lingua lasciasse la bocca di Eragon, si accorse di una curiosa sensazione mentre il peso che gli bloccava le gambe diminuiva a ritmo costante: un formicolio che gli dava l'impressione di essere estratto da una palude di freddo e denso fango. Scoccò un'occhiata a Oromis e vide che la faccia dell'elfo era contratta dallo sforzo, come se si aggrappasse a qualcosa di prezioso che non sopportava di perdere. Una vena gli pulsava su una tempia. Quando gli arcani ceppi si dissolsero, Oromis sussultò come se fosse stato punto da una vespa e rimase impalato a fissarsi le mani, il torace minuto che ansimava. Per forse un minuto non si mosse, poi raddrizzò le spalle e camminò fino all'orlo della rupe di Tel'naeir, una figura solitària che si stagliava contro il cielo pallido.
Eragon si sentì pervadere da rammarico e compassione, le stesse emozioni che aveva provato nel vedere per la prima volta la zampa mutilata di Glaedr. Si maledisse per essere stato così arrogante con Oromis, così dimentico della sua infermità, e per non aver riposto più fiducia nel giudizio dell'elfo. Non sono l'unico a dover convivere con le ferite del passato. Eragon non aveva pienamente compreso quando Oromis aveva detto che, tranne qualche semplice esempio, la magia sfuggiva al suo controllo. Ora capiva la gravità delle condizioni di Oromis e la sofferenza che dovevano causare, specie per uno della sua razza, nato e cresciuto nella magia.
Eragon si avvicinò a Oromis, s'inginocchiò e si prostrò alla maniera dei nani, premendo la fronte livida sul terreno. «Ebrithil, ti chiedo perdono.»
L'elfo non diede segni di aver sentito.
I due rimasero immobili, mentre il sole calava davanti a loro, gli uccelli cantavano le loro canzoni notturne, e l'aria diventava sempre più fredda e umida. Da nord provenivano i deboli tonfi delle ali di Saphira e Glaedr che tornavano. Con voce atona e distante, Oromis disse: «Cominceremo
daccapo domani, con questo e altri argomenti.» Dal suo profilo, Eragon intuì che Oromis aveva riacquistato il consueto contegno impassibile. «È accettabile per te?»
«Sì, maestro» disse Eragon, grato per la domanda.
«Credo sia meglio, d'ora in poi, se ti sforzerai di parlare soltanto nell'antica lingua. Abbiamo poco tempo a disposizione, e questo è il metodo più rapido per imparare.»
«Anche quando parlo con Saphira?»
«Anche allora.»
Adottando la lingua degli elfi, Eragon promise: «Allora m'impegnerò con tutte le mie forze, finché non soltanto penserò, ma sognerò nella tua lingua.»
«Se ci riuscirai» disse Oromis, usando a sua volta l'antica lingua, «la nostra missione potrà avere qualche speranza di successo.» Fece una pausa. «Invece di volare qui, domattina, accompagnerai l'elfo che manderò da te. Ti condurrà dove gli abitanti di Ellesméra si esercitano alla scherma. Resta là per un'ora, poi continua come di consueto.» «Non mi insegnerai tu?» chiese Eragon, sentendosi respinto.
«Non ho niente da insegnarti. Tu sei fra i migliori spadaccini che abbia mai conosciuto. Di scherma non ne so più di te, e quello che io possiedo e tu no non posso dartelo. A te non resta che preservare il tuo attuale livello di abilità.» «Perché non posso farlo con te... maestro?»
«Perché non mi piace cominciare la giornata con agitazione e conflitto.» Guardò Eragon, poi addolcì i toni e aggiunse: «E perché sarà un bene per te conoscere altri individui che vivono qui. Io non sono l'espressione della mia razza. Ma adesso basta. Guarda, arrivano.»
I due draghi planarono passando davanti al disco solare. Prima arrivò Glaedr con un ruggito di vento, oscurando il cielo con la sua mole imponente prima di atterrare sull'erba e ripiegare le ali dorate, poi Saphira, agile e svelta come un passerotto in confronto a un'aquila.
Come quella mattina, Oromis e Glaedr fecero alcune domande per assicurarsi che Eragon e Saphira avessero prestato attenzione alle reciproche lezioni. Non l'avevano fatto sempre, ma collaborando e condividendo informazioni fra di loro, riuscirono a rispondere a tutte le domande. L'unico punto debole fu la lingua straniera con cui avrebbero dovuto comunicare d'ora in avanti.
Meglio, brontolò Glaedr. Molto meglio. Rivolse lo sguardo su Eragon. Tu e io ci alleneremo insieme molto presto. «Certo, Skulblaka.»
Il vecchio drago sbuffò e arrancò verso Oromis, saltellando sulla zampa sana per compensare quella mancante. Saphira si protese e afferrò con le labbra la punta della coda di Glaedr, lanciandola in aria con uno scatto della testa, come se volesse spezzare il collo di un cervo. Sussultò sorpresa
quando Glaedr si volse di scatto e fece schioccare le fauci a un soffio dal suo collo.
Anche Eragon trasalì e troppo tardi si coprì le orecchie per proteggerle dal ruggito di Glaedr. Dalla rapidità e dall'intensità della reazione di Glaedr, arguì che non era la prima volta quel giorno che Saphira lo importunava. Invece di rimorso, Eragon individuò in lei un'eccitata gaiezza - come una bimba con un nuovo giocattolo - e una cieca devozione verso l'altro drago.
«Contieniti, Saphira!» le intimò Oromis. Saphira indietreggiò e si accovacciò in silenzio, anche se niente del suo atteggiamento esprimeva contrizione. Eragon mormorò una flebile scusa; Oromis agitò una mano e disse: «Filate, tutti e due!»
Senza protestare, Eragon salì in groppa a Saphira.
Dovette spronarla per prendere il volo, e una volta in aria, la dragonessa volò per tre volte in circolo sulla radura prima che lui la costringesse a prendere la rotta per Ellesméra.
Ma che cosa ti è venuto in mente? Dargli quel morso! disse lui. Pensava di saperlo, ma voleva una conferma da lei. Stavo solo giocando.
Era la verità, dato che parlavano nell'antica lingua, eppure Eragon sospettava che si trattasse soltanto di una piccola parte di una verità più ampia. Già, ma a che gioco? La sentì irrigidirsi sotto di lui. Dimentichi il tuo dovere. Continuando a... Cercò la parola giusta. Continuando a provocare Glaedr, distrai lui, Oromis e me... pregiudicando la riuscita dei nostri sforzi. Non sei mai stata così sventata prima d'ora.
Non credere di essere la mia coscienza.
Eragon scoppiò a ridere, per un momento dimentico di dove era seduto, gettando la testa all'indietro col rischio di cadere di sella. Oh, ma quale ironia, dopo tutte le volte che sei stata tu a dirmi che cosa fare. Io sono la tua coscienza, Saphira, come tu sei la mia. Hai avuto ragione a rimproverarmi e ad ammonirmi in passato, e adesso mi vedo costretto a fare lo stesso con te. Smettila di infastidire Glaedr con le tue attenzioni.
La dragonessa rimase in silenzio.
Saphira?
Ti sento.
Lo spero.
Dopo un minuto di volo tranquillo, lei disse: Due crisi in un giorno solo. Come stai adesso?
Ammaccato e indolenzito. Fece una smorfia. In parte per la Rimgar e l'allenamento di scherma, ma soprattutto per i postumi della crisi. È come un veleno, che mi indebolisce i muscoli e mi annebbia la mente. Spero soltanto di restare sano abbastanza a lungo da vedere la fine di questo addestramento. In seguito, però... non so cosa farò. Di sicuro non posso combattere per i Varden in questo stato. Non pensarci, gli suggerì lei. Non puoi farci niente, e rimuginarci sopra ti fa soltanto sentire peggio. Vivi nel presente, ricorda il passato, e non temere il futuro, perché il futuro non esiste e mai esisterà. C'è soltanto il momento presente.
Lui le diede una pacca sulla spalla e sorrise con rassegnata gratitudine. Alla loro destra, un astore cavalcava una corrente d'aria calda mentre pattugliava la foresta in cerca di prede pennute o pelose. Eragon lo osservava, riflettendo sul quesito che Oromis gli aveva posto: come poteva giustificare la sua guerra contro l'Impero, sapendo che avrebbe causato tante morti e sofferenze?
Ho la risposta, disse Saphira.
Ossia?
Galbatorix ha... La dragonessa esitò, poi disse: No, non te lo dico. Dovrai scoprirlo da solo.
Saphira! Sii ragionevole.
Lo sono. Se non sai perché quello che facciamo è la cosa giusta, tanto vale arrenderti a Galbatorix. Nonostante le sue insistenti suppliche, Eragon non riuscì a cavarle più nulla, perché lo aveva escluso da quella parte della sua mente. Tornati sull'albero, Eragon consumò una cena leggera, e stava per aprire uno dei rotoli di Oromis quando qualcuno disturbò la sua quiete bussando alla porta scorrevole.
«Avanti» disse lui, sperando che fosse Arya.
Era lei.
Arya salutò Eragon e Saphira, poi disse: «Ho pensato che ti sarebbe piaciuto visitare il Palazzo di Tialdarì e i suoi giardini, dato che hai espresso questo interesse ieri. Se non sei troppo stanco.» Indossava una lunga, morbida tunica rossa, orlata da preziosi ricami neri. L'abbinamento di colori ricordava i mantelli della regina ed enfatizzava la forte somiglianza fra madre e figlia.
Eragon spinse da parte i rotoli. «Mi piacerebbe moltissimo.»
Vuole dire ci piacerebbe moltissimo, intervenne Saphira.
Arya rimase sorpresa quando entrambi parlarono nell'antica lingua; perciò Eragon le spiegò la volontà di Oromis. «Un'idea eccellente» commentò lei, nella stessa lingua. «E molto più appropriata, finché resterete qui.» Quando tutti e tre furono scesi dall'albero, Arya li guidò verso ovest, in una zona sconosciuta di Ellesméra. Incontrarono molti elfi lungo la strada, e tutti si fermarono per inchinarsi a Saphira.
Eragon notò ancora una volta che non si scorgevano bambini. Lo disse ad Arya, che rispose: «Sì, abbiamo pochi bambini. Al momento ce ne sono soltanto due a Ellesméra, Dusan e Alanna. Per noi i bambini sono la cosa più preziosa del mondo perché sono la più rara. Avere un figlio è il più grande fra gli onori e le responsabilità che un essere vivente possa ricevere.»
Alla fine giunsero davanti a un arco acuto costolato cresciuto fra due alberi - da cui si accedeva a un vasto complesso. Sempre nell'antica lingua, Arya intonò: «Radice di albero, frutto di tasso, in nome del mio sangue lasciami il passo.» I due battenti della porta ogivale tremarono, poi si aprirono verso l'esterno, liberando cinque farfalle monarca che volarono verso il cielo violetto. L'arco si affacciava su un vasto giardino floreale che era stato creato per dare l'impressione di un campo selvatico naturale e incontaminato. L'unico elemento che tradiva l'artificio era la grande varietà di piante: molte specie erano in fiore fuori stagione, o erano originarie di climi più caldi o più freddi e non avrebbero potuto prosperare senza la magia degli elfi. Il giardino era illuminato dalle lanterne senza fiamma a foggia di gemma, con l'aggiunta di sciami di lucciole.
Arya si rivolse a Saphira. «Attenta alla coda, non farla strisciare sulle aiuole.»
S'inoltrarono nel giardino, diretti verso una linea di alberi radi. Prima ancora di capire dove fosse, Eragon vide gli alberi che si infittivano fino a diventare compatti come una parete. Si ritrovò sulla soglia di un palazzo di lucido legno, senza essersi nemmeno reso conto di essere entrato.
La sala era calda e accogliente: un luogo di pace, riflessione e conforto. La sua forma era definita dai tronchi degli alberi, che nella parte interna erano stati scortecciati, lucidati e strofinati con olio fino a far risplendere il legno come ambra. Ampie fessure regolari fra i tronchi fungevano da finestre. L'aroma di aghi di pino sminuzzati profumava l'aria. Nella sala c'erano molti elfi, intenti a leggere, scrivere e, in un angolo più buio, a suonare siringhe di canne. Tutti si fermarono per chinare la testa verso Saphira.
«Stareste qui» disse Arya, «se non foste Cavaliere e drago.»
«È magnifico» commentò Eragon, estasiato.
Arya guidò lui e Saphira in ogni luogo del palazzo accessibile ai draghi. Ogni nuova stanza era una sorpresa: non ce n'erano due uguali, e in ogni camera erano stati trovati nuovi modi per incorporare la foresta nella costruzione. In una, un ruscello limpido scorreva lungo la parete rugosa e proseguiva sul pavimento di sassi per dileguarsi sotto il cielo notturno. In un'altra, le pareti erano ricoperte di rampicanti, un arazzo verde ininterrotto ornato di fiori dall'ampia corolla rosa e bianca. Arya la chiamò Lianì Vine.
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