Volodyk - Paolini2-Eldest
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Volodyk - Paolini2-Eldest краткое содержание
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Ascoltiamo le loro voci, suggerì Saphira.
Nell'istante in cui Eragon apportò la necessaria modifica all'incantesimo, dallo specchio risuonò la voce di Nasuada: "... e il caos ci distruggerà. I nostri guerrieri non possono seguire che un solo comandante in questo conflitto. Decidi chi dovrà essere, Orrin, e in fretta."
Eragon sentì un sospiro disincarnato. "Come desideri; l'incarico è tuo."
"Ma, sire, lei non possiede i requisiti!"
"Basta, Irwin" ordinò il re. "Nasuada ha più esperienza di guerra di chiunque altro nel Surda. E i Varden sono l'unica forza che abbia sconfitto un esercito di Galbatorix. Se Nasuada fosse un generale surdano - ammetto che sarebbe alquanto singolare - non esiteresti un istante a nominarla comandante in capo. Sarò ben lieto di discutere la questione dell'autorità in un secondo momento, perché vorrà dire che sarò ancora vivo, e non sepolto nella mia tomba. Comunque sia, il nostro numero è ancora così esiguo che temo che saremo spacciati se Rothgar non ci raggiungerà prima della fine della settimana. Ora, dov'è quella dannata pergamena sul convoglio delle salmerie?... Ah, ti ringrazio, Arya. Ancora tre giorni senza..."
A quel punto la discussione s'imperniò sulla scarsità di corde per arco; Eragon decise che non gli serviva a niente, così chiuse il contatto. Lo specchio tornò limpido, e lui si ritrovò a fissare il proprio volto.
È viva, mormorò. Il suo sollievo era però adombrato dal significato di quanto aveva udito.
Saphira lo guardò. Hanno bisogno di noi.
Sì. Perché Oromis non ci ha avvertiti? Lui deve saperlo.
Forse non voleva che interrompessimo l'addestramento.
Preoccupato, Eragon si domandò che cos'altro d'importante stesse accadendo in Alagaésia di cui non era a conoscenza. Roran. Con una punta di rimorso, Eragon si rese conto che erano passate settimane da quando aveva pensato l'ultima volta a suo cugino, e ancora di più da quando lo aveva divinato sulla via per Ellesméra. Rinnovando la formula magica, lo specchio rivelò due figure che si stagliavano contro uno sfondo bianco. Ci volle un lungo istante perché Eragon riconoscesse nella figura a destra suo cugino Roran. Indossava logori abiti da viaggio, un martello infilato alla cintura, e una folta barba gli oscurava il volto. La sua espressione tetra tradiva disperazione. A sinistra c'era Jeod. I due uomini si alzavano e si abbassavano, e il fragore delle onde copriva le loro parole. Dopo un po', Roran si volse e s'incamminò lungo quello che Eragon pensò fosse il ponte di una nave, rivelandogli altre decine di compaesani. Dove si trovano, e perché Jeod è con loro? si chiese, perplesso.
Trasferendo la magia da un luogo all'altro, Eragon divinò in rapida successione Teirm - sconvolto nel vedere che il porto della città era andato distrutto - e poi Therinsford, la vecchia fattoria di Garrow, e infine Carvahall. Allora non potè reprimere un grido di angoscia.
Il villaggio era scomparso.
Ogni edificio, compresa la bella casa di Horst, era ridotto a un cumulo di macerie fumanti. Carvahall non esisteva più: era solo una vasta, nera piaga sulle sponde dell'Anora. Le uniche forme di vita rimaste erano quattro lupi grigi che si aggiravano famelici fra le rovine.
Lo specchio gli scivolò di mano e si infranse sul pavimento. Eragon si aggrappò a Saphira, gli occhi colmi di lacrime per il dolore di aver perso le sue radici. Saphira lo confortò con i suoi lievi mormorii gutturali, sfiorandogli il braccio con il muso e avvolgendolo in una calda coperta di compassione. Non ti angustiare troppo, piccolo mio. Se non altro, i tuoi amici sono ancora vivi.
Eragon rabbrividì, mentre un nocciolo duro di determinazione si andava formando nelle sue viscere. Siamo rimasti isolati dal mondo troppo a lungo. È tempo di lasciare Ellesméra e di affrontare il nostro destino, qualunque esso sia. Per il momento, Roran dovrà badare a se stesso, ma i Varden... possiamo aiutare i Varden.
È tempo di combattere, Eragon? chiese Saphira, con una strana sfumatura formale nella voce.
Eragon sapeva che cosa intendeva dire: era tempo di sfidare l'Impero a viso aperto, tempo di uccidere e devastare ai limiti delle loro notevoli capacità, tempo di scatenare ogni oncia della loro rabbia finché Galbatorix non fosse caduto morto ai loro piedi? Era tempo di imbarcarsi in una campagna che forse avrebbe richiesto decenni per concludersi? Sì, è tempo.
Regali di commiato
Eragon impiegò meno di cinque minuti a preparare i bagagli. Prese la sella che gli aveva donato Oromis e la legò sul dorso di Saphira insieme alle bisacce.
Saphira gettò indietro la testa, con le narici dilatate, e disse: Ti aspetto al campo. Con un ruggito si slanciò dalla casa sull'albero con le ali azzurre spiegate e si allontanò sorvolando la foresta.
Veloce come un elfo, Eragon corse al Palazzo di Tialdari, dove trovò Orik seduto nel solito angolino, intento a giocare un solitario di rune. Il nano lo accolse con una calorosa pacca sul braccio. «Eragon! Cosa ti porta qui a quest'ora del mattino? Credevo fossi sul campo a incrociare le spade con Vanir.»
«Saphira e io partiamo» disse Eragon.
Orik rimase a bocca aperta, poi socchiuse gli occhi, facendosi improvvisamente serio. «Ci sono novità?» «Te ne parlerò in seguito. Vieni con noi?»
«Nel Surda?»
«Sì.»
Un ampio sorriso solcò la faccia barbuta del nano. «Dovresti mettermi in ceppi per farmi restare qui. Non ho niente da fare a Ellesméra, se non diventare un pigro botolo di lardo. Un po' di eccitazione mi farà bene. Quando si parte?» «Appena possibile. Fa' i bagagli e vediamoci sul campo di addestramento. Vedi se riesci a procurarti dei viveri che ci bastino per una settimana.»
«Una settimana? Ma ci vorranno...»
«Voleremo su Saphira.»
La pelle intorno alla barba di Orik impallidì. «Noi nani non amiamo troppo le altezze, Eragon. No, per niente. Sarebbe meglio se andassimo a cavallo, come abbiamo fatto per venire qui.»
Eragon scosse la testa. «Ci vorrebbe troppo. Per giunta, è piuttosto facile cavalcare su Saphira. Se cadi, lei viene a prenderti.» Orik mugugnò, poco convinto. Lasciando il palazzo, Eragon attraversò di corsa la città silvana e raggiunse Saphira. Insieme volarono alla rupe di Tel'naeìr.
Oromis era seduto sulla zampa anteriore destra di Glaedr
quando arrivarono. Le squame del drago riflettevano una
miriade di bagliori dorati tutto intorno. Né l'elfo né il drago
si mossero. Disceso da Saphira, Eragon s'inchinò. «Maestro Glaedr. Maestro Oromis.»
Glaedr disse: Avete deciso di tornare dai Varden, non è così?
Sì, rispose Saphira.
La sensazione di essere stato tradito ebbe la meglio sulla compostezza di Eragon. «Perché ci avete nascosto la verità? Siete così decisi a tenerci qui da ricorrere a questi bassi espedienti? I Varden stanno per essere attaccati e voi non ci avete detto una parola!»
Serafico come sempre, Oromis rispose: «Non volete sapere perché?»
Volentieri, maestro, intervenne Saphira prima che Eragon avesse il tempo di replicare. Poi, in privato, lo ammonì: Sii educato!
«Vi abbiamo taciuto gli eventi per due ragioni. Innanzitutto perché anche noi non sapevamo nulla fino a nove giorni fa, e la reale entità, la posizione e lo spostamento delle truppe dell'Impero ci sono rimaste nascoste fino a tre giorni fa, quando Lord Dàthedr è riuscito a penetrare
gli incantesimi che Galbatorix usava per deflettere la nostra cristallomanzia.»
«Questo ancora non spiega perché non ci avete detto niente» esclamò Eragon. «Non solo, ma quando avete scoperto che i Varden erano in pericolo, perché Islanzadi non ha esortato gli elfi alla battaglia? Siamo o non siamo alleati?» «Islanzadi ha esortato gli elfi, Eragon. La foresta riecheggia di martelli, di stivali, di lamenti di coloro che stanno per essere separati. Per la prima volta in cento anni, la nostra razza sta per emergere dalla Du Weldenvarden per sfidare il nostro più grande nemico. È giunta l'ora per gli elfi di camminare di nuovo per le terre di Alagaèsia.» Con gentilezza, Oromis aggiunse: «Sei stato distratto, di recente, Eragon, e ti capisco. Ora devi vedere oltre te stesso. Il mondo richiede la tua attenzione.»
Rosso dalla vergogna, Eragon riuscì soltanto a dire: «Mi dispiace, maestro.» Rammentò le parole di Blagden e sorrise amaramente. «Sono cieco come una talpa.»
«Non direi, Eragon. Ti sei comportato bene, considerando le enormi responsabilità che ti abbiamo chiesto di assumere.» Oromis lo guardò con aria grave. «Aspettiamo nei prossimi giorni una missiva di Nasuada in cui chiederà l'aiuto di Islanzadi e che tu ti unisca ai Varden. Intendevo informarti della situazione dei Varden allora, quando avresti avuto ancora tempo di raggiungere il Surda prima del levarsi delle armi. Se te l'avessi detto prima, il tuo giuramento di fedeltà ti avrebbe imposto di partire prima che avessi completato l'addestramento, per correre in difesa della tua signora. Ecco perché io e Islanzadi non ti abbiamo detto nulla.»
«Il mio addestramento non serve a niente se i Varden vengono distrutti.»
«No. Ma potresti essere l'unica persona in grado di impedire la loro distruzione, perché esiste la possibilità, remota ma terribile, che Galbatorix stesso scenda in campo. È troppo tardi perché i nostri guerrieri aiutino i Varden, il che significa che se Galbatorix sarà presente alla battaglia, tu dovrai affrontarlo da solo, senza la protezione dei nostri maghi. Date le circostanze, era di vitale importanza che il tuo addestramento continuasse il più a lungo possibile.» In un istante la collera di Eragon sbollì, sostituita da un freddo e duro calcolo, mentre capiva la necessità del silenzio di Oromis. I sentimenti personali erano irrilevanti in una situazione disperata come la loro. Con voce piatta disse: «Hai ragione. Il mio giuramento mi impone di accorrere in difesa di Nasuada e dei Varden. Tuttavia non sono pronto per affrontare Galbatorix. Non ancora, almeno.»
«Allora ti suggerisco» disse Oromis, «se Galbatorix dovesse presentarsi, di fare di tutto per distrarlo dai Varden finché le sorti della battaglia non saranno decise, nel bene o nel male, e di evitare di scontrarti con lui direttamente. Ma prima che ve ne andiate, voglio chiedervi una cosa: che giuriate, una volta che gli eventi lo permettano, di tornare qui a completare l'addestramento, perché avete ancora molto da imparare.»
Torneremo, promise Saphira, legandosi nell'antica lingua.
«Torneremo» ripete Eragon, e decretò il loro destino.
Soddisfatto, Oromis portò una mano dietro la schiena e prese una sacca rossa ricamata che aprì allargando i cordoni. «In previsione della tua partenza, ti avevo preparato tre regali, Eragon.» Dalla sacca estrasse una fiaschetta d'argento. «Innanzitutto, del faelnirv potenziato con qualche incantesimo personale. Questa pozione ti sosterrà quando tutti gli altri falliranno, e potrai trovare utili le sue proprietà anche in altre circostanze. Ma bevila con parsimonia, perché ho avuto il tempo di prepararne solo qualche sorso.»
Porse la fiaschetta a Eragon; poi dalla stessa sacca estrasse un lungo cinturone nero e blu. Eragon lo trovò insolitamente solido e pesante quando se lo fece scorrere tra le mani. Era fatto di fili di tessuto intrecciati in un disegno che raffigurava un tralcio di Liani Vine. Seguendo le istruzioni di Oromis, Eragon tirò un tassello alla fine della cintura e rimase senza fiato quando una striscia al centro scivolò indietro per rivelare dodici diamanti, ciascuno grande un pollice. Quattro diamanti erano bianchi, quattro neri, gli altri erano rossi, blu, gialli e marrone. Scintillavano freddi e brillanti, come ghiaccio all'alba, riflettendo un arcobaleno di colori sulle mani di Eragon.
«Maestro...» Eragon scosse il capo, a corto di parole. «Sei sicuro di volermi fare questo dono?» «Abbine cura, perché nessuno abbia la tentazione di rubartela. Questa è la cintura di Beloth il Savio, di cui hai letto nella storia dell'Anno delle Tenebre, ed è uno dei più grandi tesori dei Cavalieri. Sono le gemme più perfette che i Cavalieri siano riusciti a trovare. Alcune le abbiamo comprate dai nani. Altre le abbiamo vinte in battaglia, o estratte dalle miniere noi stessi. Le pietre non contengono magia, ma potrai usarle come ricettacolo del tuo potere e attingere alla riserva quando ne avrai bisogno. Questo, oltre al rubino incastonato nel pomo di Zar'roc, ti consentirà di ammassare una scorta di energia che ti aiuterà a non sprecare invano le tue forze nell'evocare incantesimi in battaglia, o quando dovrai affrontare stregoni nemici.»
Infine Oromis gli porse un sottile rotolo di pergamena, protetto da un tubo di legno scolpito con un bassorilievo dell'albero di Menoa. Aprendo il rotolo, Eragon vide il poema che aveva recitato all'Agaeti Blodhren. Era scritto con la minuta calligrafia di Oromis e illustrato dagli squisiti disegni a inchiostro dell'elfo. Piante e animali decoravano il primo glifo di ogni quartina, mentre delicate volute
tracciavano le colonne di parole e incorniciavano le immagini.
«Ho pensato» disse Oromis «che ti avrebbe fatto piacere conservare una copia per te.»
Eragon guardò i dodici pregiatissimi diamanti che reggeva con una mano e la pergamena di Oromis nell'altra, sapendo che era il rotolo a essere più prezioso. S'inchinò e, ridotto al linguaggio più essenziale dallo smisurato senso di gratitudine, disse: «Grazie, maestro.»
Poi Oromis lo sorprese cominciando per primo il tradizionale saluto elfico, a indicare così il suo rispetto per Eragon: «Che la fortuna ti assista.»
«Che le stelle ti proteggano.»
«E che la pace regni nel tuo cuore» concluse l'elfo dai capelli d'argento. Ripetè il commiato rivolto a Saphira. «Ora andate e volate più veloci del vento del nord, sapendo che tu, Saphira Squamediluce, e tu, Eragon Ammazzaspettri, portate con voi la benedizione di Oromis, ultimo discendente del Casato di Thràndurin, colui che è sia il Saggio Dolente che lo Storpio Che è Sano.»
E anche la mia, aggiunse Glaedr. Protese il collo e sfiorò la punta del naso di Saphira con il suo, gli occhi dorati che scintillavano come pozzi di brace. Ricorda di mantenere integro il tuo cuore, Saphira. Lei mormorò compunta. Si separarono con un solenne commiato. Saphira si levò in volo sulla fitta foresta, mentre Oromis e Glaedr restavano a guardarli, due figure solitàrie sulla rupe. Malgrado le difficoltà della sua permanenza a Ellesméra, a Eragon sarebbe mancato vivere fra gli elfi, perché tra di loro aveva trovato il posto più vicino a una casa da quando aveva lasciato la Valle Palancar.
Parto da qui come un uomo nuovo, pensò, e chiuse gli occhi, abbracciando il collo di Saphira.
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