Volodyk - Paolini2-Eldest
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Volodyk - Paolini2-Eldest краткое содержание
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Parto da qui come un uomo nuovo, pensò, e chiuse gli occhi, abbracciando il collo di Saphira.
Prima di andare all'appuntamento con Orik, fecero un'ultima sosta: il Palazzo di Tialdari. Saphira atterrò nei giardini interni, attenta a non danneggiare nessuna pianta con la coda o gli artigli. Senza aspettare che la dragonessa si accovacciasse, Eragon balzò a terra, un salto che in precedenza non avrebbe mai potuto compiere senza farsi male. Un elfo andò loro incontro, si toccò le labbra con le due dita e chiese in che cosa poteva essergli utile. Quando Eragon rispose che voleva un'udienza con la regina Islanzadi, l'elfo disse: «Ti prego di aspettare qui, Mano d'Argento.» Meno di cinque minuti più tardi, la regina emerse dai recessi alberati del Palazzo di Tialdari, la tunica cremisi come una goccia di sangue fra i signori e le dame vestiti di bianco che l'accompagnavano. Dopo aver osservato le opportune formule di saluto, la regina disse: «Oromis mi ha informato della vostra intenzione di lasciarci. Mi rincresce molto, ma nessuno può opporsi al volere del fato.»
«No, maestà... maestà, siamo venuti a prendere congedo prima di partire. Sei stata molto generosa con noi, e ringraziamo te e il tuo Casato per averci dato abiti, cibo e alloggio. Siamo in debito con voi.»
«Non sia mai, Cavaliere. Non è stato che un minimo risarcimento per ciò che dobbiamo a te e ai draghi per il nostro misero fallimento nella caduta dei Cavalieri. Tuttavia sono lusingata che abbiate apprezzato la nostra ospitalità.» Fece una pausa. «Quando arriverai nel Surda, porgi i miei saluti a ledy Nasuada e a re Orrin, e informali che i nostri guerrieri attaccheranno presto la metà settentrionale dell'Impero. Se la fortuna ci assiste, coglieremo Galbatorix impreparato e, col dovuto tempo, divideremo le sue forze.»
«Per servirti.»
«Inoltre sappi che ho inviato dodici dei nostri migliori stregoni nel Surda. Se sarai ancora vivo quando arriveranno, risponderanno ai tuoi ordini e faranno del loro meglio per difenderti dal pericolo, notte e giorno.» «Grazie, maestà.»
Islanzadi tese una mano, e uno dei signori elfici le porse una lunga scatola di legno disadorna. «Oromis ti ha fatto dei regali, e questo è il mio. Perché ti ricordi del periodo che hai trascorso con noi sotto gli ombrosi pini.» Aprì la scatola, ed Eragon vide un lungo arco scuro dai bracci flessuosi e dalle estremità ricurve adagiato su un drappo di velluto. Intarsi d'argento e di foglie di sanguinella decoravano le punte e l'impugnatura dell'arco. A fianco c'era una faretra colma di frecce dall'impennaggio di candido cigno. «Ora che condividi la nostra forza, mi è sembrato opportuno che avessi uno dei nostri archi. Ho cantato personalmente questo arco da un albero di tasso. La corda non si spezzerà mai. E finché userai queste frecce, non mancherai mai il bersaglio, anche se avrai il vento contro.»
Ancora una volta, Eragon si sentì sopraffatto dalla generosità degli elfi. S'inchinò. «Cosa posso dire, mia signora? È un privilegio ricevere in dono il lavoro delle tue mani.»
Islanzadi annuì, come se non si aspettasse niente di meno, poi lo oltrepassò e si rivolse a Saphira. «Saphira, non ho doni per te perché non sono riuscita a pensare a niente di cui tu possa aver bisogno o desiderio, ma se c'è qualcosa di nostro che vorresti, non devi far altro che chiedere, e sarà tuo.»
I draghi, replicò Saphira, non hanno bisogno di possedere qualcosa per essere felici. A che ci servono le ricchezze quando la nostra pelle è più gloriosa di qualunque tesoro al mondo? No, sono soddisfatta per la generosità che hai mostrato a Eragon.
Infine Islanzadi augurò loro un viaggio sicuro e tranquillo. Si volse, con un ampio svolazzo del mantello rosso, e fece per andarsene, ma poi si fermò al margine del giardino per dire: «Eragon?»
«Sì, maestà?»
«Quando incontrerai Arya, ti prego di esprimerle il mio affetto e di dirle che ci manca molto, qui a Ellesméra.» Le parole furono rigide e formali. Senza aspettare risposta, la regina si allontanò e scomparve fra i tronchi ombrosi che proteggevano l'interno del Palazzo di Tialdari, col suo seguito di dame e signori.
Saphira impiegò meno di un minuto per volare al campo di addestramento, dove Orik se ne stava seduto sul suo zaino, lanciandosi l'ascia da una mano all'altra, il volto corrucciato. «Era ora» borbottò. Si alzò e si infilò l'ascia nella cintura. Eragon si scusò per il ritardo, poi legò lo zaino di Orik dietro alla sella. Il nano scrutò la spalla di Saphira, che torreggiava su di lui. «Per la barba nera di Morgothal, come diamine faccio a salire lassù? Una rupe ha più appigli di te, Saphira.»
Vieni, disse lei. Si distese sul ventre e allungò di lato la zampa destra, per formare una specie di rampa. Issandosi sullo stinco con un sonoro sbuffo, Orik strisciò carponi lungo la zampa. Una piccola vampa di fuoco eruttò dalle narici della dragonessa. Sbrigati... mi fai il solletico!
Orik si fermò sull'articolazione della coscia, poi passò una gamba dall'altro lato della colonna vertebrale di Saphira e cominciò a risalire verso la sella. Battè la mano su una delle punte cornee del dorso che gli spuntava fra le gambe e disse: «La maniera più efficace per perdere la virilità.»
Eragon sogghignò. «Non scivolare.» Quando Orik si calò sulla parte anteriore della sella, Eragon montò su Saphira e si sedette dietro al nano. Per impedirgli di cadere durante le evoluzioni di Saphira, allentò le cinghie che servivano a legargli le braccia e le fece passare sopra le gambe di Orik.
Quando Saphira si erse in tutta la sua statura, Orik vacillò, poi strinse la punta avanti a sé. «Aarrgh! Eragon, non farmi aprire gli occhi finché non siamo per aria, altrimenti vomito. È una cosa innaturale, ti dico. I nani non sono fatti per cavalcare draghi. Non è mai accaduto prima.»
«Mai?»
Orik scosse il capo senza parlare.
Gruppi di elfi sciamarono dalla Du Weldenvarden per radunarsi ai margini del campo e osservare con espressione solenne Saphira che sollevava le ali translucide per spiccare il volo.
Eragon rafforzò la presa quando avvertì i muscoli della dragonessa gonfiarsi sotto di lui. Con una rapida e potente spinta, Saphira si lanciò verso il cielo azzurro, battendo le ali veloce per levarsi al di sopra degli alberi. Volò in circolo sulla grande foresta, guadagnando quota a ogni spirale, poi puntò a sud, verso il Deserto di Hadarac. Sebbene il vento ululasse nelle sue orecchie, Eragon sentì la voce limpida di un'elfa di Ellesméra che cantava: Volerai, volerai, lontano volerai, sui picchi e sulle valli fino alle perdute terre. Volerai, volerai, lontano volerai, e da me più non tornerai...
Le fauci dell'oceano
Il mare di ossidiana si gonfiò sotto l'Ala di Drago, spinI gendo la nave verso il cielo. Il vascello rimase in bilico per qualche istante sulla cresta di un'onda spumeggiante prima di puntare la prua verso il basso e precipitare nell'avvallamento successivo. L'aria gelida era spazzata da turbini di nebbiolina pungente, sospinta dal vento che ululava come uno spirito mostruoso.
A mezzanave, Roran si tenne stretto alle sartie di dritta e vomitò oltre il parapetto; non gli uscì altro che acida bile. Si era tanto vantato del fatto che il suo stomaco non gli avesse dato problemi durante il viaggio sulla chiatta di Clovis, ma la tempesta in cui erano incappati era così violenta che persino gli uomini di Uthar, marinai avvezzi a ogni tempo, avevano difficoltà a tenere il whisky in corpo.
Gli parve di essere colpito da un macigno di ghiaccio fra le scapole quando un'ondata investì la nave al traverso, inondando il ponte prima di scorrere via dagli ombrinali per tornare nel furioso, scatenato, schiumoso oceano da dove era venuta. Roran si asciugò l'acqua salata dagli occhi con le dita intorpidite dal gelo come ciocchi di legno, e strizzò le palpebre per scrutare l'orizzonte a poppa.
Forse la tempesta farà loro perdere le nostre tracce. Tre corvette dalle vele nere li inseguivano fin da quando avevano superato le Scogliere di Ferro e doppiato quello che Jeod aveva chiamato Edur Carthungavé, e Uthar lo Sperone di Rathbar. «La coda della Grande Dorsale» aveva detto Uthar, sogghignando. Le corvette erano più veloci dell'Ala di Drago, appesantita dalla moltitudine di passeggeri, e si erano sempre più avvicinate alla nave mercantile fino a potersi scambiare nugoli di frecce.
Sembrava inoltre che la corvetta in testa imbarcasse uno stregone, perché le sue frecce erano innaturalmente precise: spezzavano le cime, distruggevano le baliste e bloccavano i bozzelli. Dai loro attacchi, Roran dedusse che all'Impero non importava più di catturarlo vivo, ma soltanto di impedirgli di raggiungere i Varden. Aveva appena preparato i compaesani a respingere un abbordaggio, quando le nubi sopra di loro si erano addensate in un livido colore viola, cariche di pioggia, e una tempesta furiosa si era scatenata da nordovest. Al momento, Uthar stava bordeggiando con il vento al traverso, diretto verso le Isole Meridionali, dove sperava di eludere le corvette tra i fondali bassi e gli anfratti di Beirland.
Un fulmine orizzontale balenò fra due enormi cumulonembi,
trasformando il mondo in un quadro di pallido marmo, prima che le tenebre tornassero sovrane. Ogni lampo accecante imprimeva un'immagine fissa negli occhi di Roran, pulsando anche dopo che la luce era svanita.
Poi cadde una serie di fulmini a zigzag, e Roran vide come in una successione di dipinti monocromatici - l'albero di contromezzana torcersi, spezzarsi e cadere a sinistra nel mare ribollente. Aggrappandosi a una sagola di sicurezza, salì sul casseretto e, insieme a Bonden, mozzarono i cavi che ancora collegavano l'albero all'Ala di Drago facendola affondare di poppa. I cavi si contorsero come serpenti quando furono tagliati.
Roran si accasciò sul ponte, il braccio destro agganciato al parapetto, mentre la nave sprofondava di venti, trenta piedi in un avvallamento. Un'onda lo travolse, sottraendogli gli ultimi residui di calore dalle ossa. Il suo corpo era scosso dai brividi.
Non farmi morire così, pregò, anche se non sapeva a chi stesse rivolgendo la sua supplica. Non fra queste onde crudeli. Il mio compito non è ancora finito. Durante quella lunga notte, si aggrappò ai ricordi di Katrina, traendone conforto quando si sentiva esausto e la speranza minacciava di abbandonarlo.
La tempesta durò due giorni interi e cominciò a placarsi soltanto qualche ora prima dell'alba. Il mattino si annunciò con un cielo limpido, screziato di rosa, e tre vele nere all'orizzonte a nord. A sud, il profilo brumoso di Beirland si stagliava sotto una cortina di nubi raccolte intorno alla montagna frastagliata che dominava l'isola.
Roran, Jeod e Uthar s'incontrarono in una piccola cabina di prua - dato che quella del comandante era stata adibita a infermeria - dove Uthar srotolò alcune cartine nautiche e indicò un punto al largo di Beirland. «Qui è dove ci troviamo adesso» disse. Prese una mappa più grande di Alagaésia e indicò la foce del fiume Jiet. «E questa sarà la nostra destinazione, poiché i viveri non ci bastano per arrivare a Roccascissa. Come ci arriveremo senza essere presi è un altro paio di maniche. Senza l'albero di contromezzana, quelle maledette corvette ci raggiungeranno entro domani a mezzogiorno, al massimo entro sera, se ci va bene.»
«Non possiamo sostituire l'albero?» chiese Jeod. «So che vascelli di questa stazza portano sempre alberi di rispetto per riparazioni di questo genere.»
Uthar scrollò le spalle. «Potremmo, se avessimo un buon carpentiere navale a bordo. Ma siccome non ce l'abbiamo, non permetterò che mani inesperte montino l'albero col rischio che poi si schianti sul ponte e ferisca qualcuno.» Roran osservò: «Se non fosse per lo stregone, o gli stregoni,
io avrei detto di combattere, dato che siamo molto più numerosi degli equipaggi delle corvette. Ma eviterei uno scontro diretto. Mi sembra difficile poter vincere, considerando quante navi inviate in aiuto dei Varden sono scomparse.» Con un borbottio, Uthar tracciò un cerchio intorno alla loro attuale posizione. «Questa è la massima distanza che saremo in grado di coprire entro domani sera, purché il vento ci sia favorevole. Potremmo attraccare da qualche parte fra Beirland e Nìa, se volessimo, ma non vedo come questo possa esserci d'aiuto. Ci troveremmo in trappola. I soldati di quelle corvette o i Ra'zac o Galbatorix ci potrebbero stanare in qualsiasi momento.»
Roran aggrottò la fronte meditando sulle alternative: una battaglia con le corvette sembrava inevitabile. Per lunghi minuti l'unico rumore dentro la cabina fu lo sciabordio delle onde contro lo scafo. Poi Jeod posò il dito sulla mappa fra Beirland e Nia, guardò Uthar e disse: «Che ne pensi dell'Occhio del Cinghiale?»
Roran rimase sorpreso quando vide impallidire la faccia del rude lupo di mare. «Non ci penso neppure, mastro Jeod. Non correrei mai quel rischio. Preferirei affrontare le corvette e morire in mare aperto piuttosto che sfidare quel luogo maledetto. Ha inghiottito più navi di quante ne abbia l'intera flotta di Galbatorix.»
«Eppure mi pare di ricordare» insistette Jeod, appoggiandosi allo schienale «che il passaggio è sicuro al culmine dell'alta e della bassa marea. O mi sbaglio?»
Con grande, palese riluttanza, Uthar ammise: «No, è giusto, ma l'Occhio è così vasto che occorre calcolare i tempi alla perfezione per evitare il disastro. Non ce la faremo, con quelle corvette alle calcagna.»
«Ma se potessimo» continuò Jeod, «se riuscissimo a calcolare i tempi, le corvette andrebbero distrutte, oppure, se il coraggio mancasse loro, sarebbero costrette a circumnavigare Ma. In questo caso avremmo il tempo di trovare un nascondiglio.»
«Se, se... Ci farai colare a picco con i tuoi se.»
«Andiamo, Uthar, le tue paure sono irrazionali. La mia proposta è pericolosa, lo ammetto, ma non più di quanto lo sia stata quella di fuggire da Teirm. O dubiti di non essere in grado di attraversare lo stretto? Non sei abbastanza uomo da provarci?»
Uthar incrociò le braccia nude. «Non hai mai visto l'Occhio, vero?»
«No, mai.»
«Non è che io non sia uomo abbastanza, ma l'Occhio travalica le forze di un essere umano; le nostre navi più grandi, i nostri edifici più imponenti, qualsiasi cosa ti venga in mente impallidisce al confronto. Sarebbe come cercare di cavalcare una valanga; potresti riuscirci, ma potresti lo stesso finire ridotto in polvere.»
«Cosa sarebbe» intervenne Roran «l'Occhio del Cinghiale?»
«Le fameliche fauci dell'oceano» sentenziò Uthar.
In tono meno solenne, Jeod disse: «È un gorgo, Roran. L'Occhio si forma per le correnti di marea che si scontrano fra Beirland e Ma. Quando la marea sale, l'Occhio ruota da nord a ovest. Quando la marea cala, ruota da nord a est.» «Non suona così pericoloso.»
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