Volodyk - Paolini2-Eldest
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Volodyk - Paolini2-Eldest краткое содержание
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Eragon accettò l'arma dalle mani di Vanir e la soppesò, preoccupato da quanto era leggera. C'è qualcosa che non va, si disse.
«In guardia!»
Questa volta fu Vanir a iniziare il duello. Con un solo balzo, coprì la distanza che li separava e tentò un affondo contro la spalla destra di Eragon. Eragon ebbe l'impressione che l'elfo si muovesse più lentamente del solito, come se i suoi riflessi fossero scesi al livello di un umano. Fu facile per Eragon deviare la spada di Vanir, e azzurre scintille sprizzarono dal metallo delle lame.
Vanir arretrò con espressione attonita. Si volse e ripartì all'attacco, ma Eragon schivò la spada flettendo la schiena all'indietro, come un albero ondeggiante nel vento. In rapida successione, Vanir provò una ventina di colpi diversi, che Eragon schivò o parò usando sia il fodero di Zar'roc che la lama stessa per arrestare l'assalto.
Eragon si rese conto che lo spettrale drago dell'Agaetì Blòdhren non gli aveva soltanto alterato l'aspetto fisico, ma gli aveva anche conferito le capacità atletiche di un elfo. In forza e agilità, era pari al più vigoroso degli elfi. Animato da questa nuova consapevolezza, e desideroso di mettere alla prova i suoi limiti, Eragon balzò più in alto che potè. Zar'roc sfavillò rossa alla luce del sole, mentre lui volava verso il cielo, librandosi a oltre dieci piedi dal suolo, prima di fare una capriola a mezz'aria come un acrobata e atterrare alle spalle di Vanir, nella direzione opposta da cui era partito.
Eragon scoppiò in una risata trionfante. Non era più inerme davanti agli elfi, agli Spettri o altre creature magiche. Non avrebbe più subito il disprezzo degli elfi. Non avrebbe più dovuto contare su Saphira o Arya per affrontare nemici come Durza.
Si slanciò su Vanir, e il campo risuonò di un feroce clangore quando la lama rossa e la lama bianca cozzarono, mentre i due piroettavano sull'erba. L'impeto dei loro colpi creava folate di vento che gli scompigliavano i capelli. Gli alberi fremettero e persero una pioggia di aghi. Il duello si protrasse per tutta la mattina, perché, nonostante le nuove capacità di Eragon, Vanir restava pur sempre un avversario formidabile. Ma alla fine prevalse Eragon. Mulinando Zar'roc, superò la guardia di Vanir e lo colpì sul braccio, spezzandogli l'osso.
Vanir lasciò cadere la spada, il volto pallido per la sorpresa: «Com'è veloce la tua spada» disse, ed Eragon riconobbe la famosa strofa della Ballata di Umhodan.
«Per gli dei!» esclamò Orik. «È stato il miglior duello che abbia mai visto; eppure c'ero quando hai affrontato Arya nel Farthen Dùr.»
Poi Vanir fece un gesto che Eragon non si sarebbe mai aspettato; l'elfo voltò la mano ferita nel gesto di fedeltà, se la portò allo sterno e disse: «Imploro il tuo perdono per il mio comportamento, Eragon-elda. Pensavo che avessi consegnato la mia razza al vuoto, e la mia paura mi ha fatto agire in maniera vergognosa. Tuttavia, pare che la tua razza non metta più in pericolo la nostra causa.» In tono sommesso, aggiunse: «Adesso meriti il titolo di Cavaliere.» Eragon ricambiò con un inchino del capo. «Tu mi onori. Mi dispiace di averti inflitto quella brutta ferita. Mi permetti di guarirla?»
«No. Lascerò che la natura faccia il suo corso, come ricordo di quando ho incrociato la spada con Eragon Ammazzaspettri. E non temere che domani diserti il nostro allenamento. Sono altrettanto bravo con la sinistra.» Entrambi si inchinarono ancora, poi Vanir si allontanò.
Orik si battè una mano sulla coscia e disse: «Ora abbiamo una possibilità di vittoria, una vera possibilità! Lo sento nelle ossa. Ossa di pietra, dicono. Ah, questo renderà oltremodo felici Rothgar e Nasuada.»
Eragon camminava adagio a fianco del nano, concentrato sulla rimozione del blocco dai bordi taglienti di Zar'roc, ma disse a Saphira: Se fossero bastati ì muscoli per deporre Galbatorix, gli elfi lo avrebbero fatto già da tempo. Eppure non poteva fare a meno di sentirsi compiaciuto dalla sua nuova forza, come anche dalla tanto attesa scomparsa del tormento alla schiena. Senza le continue crisi, era come se un velo di nebbia si fosse dissipato dalla sua mente, consentendogli di pensare di nuovo con lucidità.
Gli restava qualche minuto prima dell'orario stabilito per andare da Oromis e Glaedr, così Eragon prese l'arco e la faretra appesi al dorso di Saphira e andò alla postazione dove gli elfi si esercitavano al tiro con l'arco. Poiché gli archi degli elfi erano molto più potenti del suo, i loro bersagli imbottiti erano sia troppo piccoli che troppo lontani per lui. Dovette tirare dalla metà della distanza.
Mettendosi in posizione, Eragon incoccò una freccia e tirò indietro la corda, sorpreso dalla facilità con cui ci riusciva. Prese la mira, scoccò la freccia e rimase immobile per vedere se centrava il bersaglio. Come un calabrone impazzito, la freccia ronzò verso il bersaglio e si conficcò nel centro. Eragon sorrise. Effettuò di nuovo la sequenza di tiro, con sempre maggiore sicurezza e rapidità, tanto che arrivò a scoccare trenta frecce in un minuto.
Alla trentunesima freccia, impresse sulla corda una trazione un po' più forte, superiore anche alle sue capacità. Con uno schianto assordante, l'arco di legno di tasso si spezzò nella sua mano sinistra, graffiandogli le dita e scagliando un ventaglio di schegge tutt'intorno. La mano gli si intorpidì per il colpo.
Eragon guardò i resti dell'arma con espressione avvilita. Era stato Garrow a dargli quell'arco come regalo di compleanno, tre anni prima. Da allora, di rado era passata una settimana senza che Eragon lo usasse. Con esso aveva procurato cibo per la sua famiglia in tante occasioni, quando altrimenti sarebbero morti di fame. Con esso aveva ucciso il suo primo cervo. Con esso aveva ucciso il suo primo Urgali. E attraverso di esso aveva usato la magia per la prima volta. Perdere l'arco era come perdere un vecchio amico su cui aveva potuto contare anche nella peggiore delle situazioni.
Saphira annusò i due monconi di legno che penzolavano dalla sua mano e disse: A quanto pare ti serve un altro scagliafrecce. Lui emise un borbottio incomprensibile, con poca voglia di parlare, e andò al bersaglio a recuperare le frecce.
Dal campo di addestramento, lui e Saphira volarono alla bianca rupe di Tel'naeir, e si presentarono a Oromis, seduto su uno sgabello davanti alla porta del capanno, gli occhi saggi persi in lontananza. «Ti sei ripreso, Eragon, dalla potente magia della Celebrazione del Giuramento di Sangue?» chiese il vecchio elfo.
«Sì, maestro.»
Seguì un lungo silenzio, mentre Oromis sorseggiava il suo té di more e continuava a contemplare l'antica foresta. Eragon attese senza dire una parola; si era abituato a quelle pause, dopo la lunga frequentazione del vecchio Cavaliere. Alla fine, Oromis disse: «Glaedr mi ha spiegato che cosa ti è successo durante la celebrazione. Non è mai accaduta una cosa del genere in tutta la storia dei Cavalieri... Ancora una volta, i draghi si sono dimostrati molto più capaci di quanto immaginassimo.» Bevve un sorso di té. «Glaedr non è riuscito a dirmi di preciso quali trasformazioni hai subito, perciò vorrei che fossi tu a descrivermi in cosa sei cambiato, compreso l'aspetto.»
Eragon raccontò in breve come era stato alterato, soffermandosi sull'accresciuta acutezza, della vista, dell'olfatto, dell'udito e del tatto, per concludere con un resoconto dettagliato del duello con Vanir.
«E come ti senti?» chiese Oromis. «Ti rincresce che il tuo corpo sia stato manipolato senza il tuo permesso?» «No, no. Affatto. Mi avrebbe dato fastidio prima della battaglia del Farthen Dùr, ma ora non posso che provare sollievo: la schiena non mi tormenta più. Mi sarei sottoposto volentieri a cambiamenti anche maggiori pur di sfuggire alla maledizione di Durza. No, l'unico sentimento che provo è gratitudine.»
Oromis annuì. «Mi compiaccio di vedere che sei abbastanza saggio da pensarla così, poiché questo dono vale più di tutto l'oro del mondo. Grazie a esso, credo che i nostri piedi si siano incamminati sul sentiero giusto.» Bevve un altro sorso di té. «Procediamo. Saphira, Glaedr ti aspetta alla rocca delle Uova Infrante. Eragon, oggi comincerai con il terzo livello di Rimgar, se possibile. Vorrei capire fino a che punto si sono accresciute le tue capacità.» Eragon si avviò verso lo spiazzo di terra battuta dove di solito eseguivano la Danza del Serpente e della Gru, poi esitò quando l'elfo dai capelli d'argento rimase indietro. «Maestro, non ti unisci a me?»
Un fievole sorriso illuminò di tristezza il volto di Oromis. «Non oggi, Eragon. Gli incantesimi dell'Agaeti Blòdhren hanno preteso un grande tributo da me. E oltre a questo ci sono le mie... condizioni. Le ultime forze le ho spese per venire qui fuori a sedermi.»
«Mi dispiace, maestro.» Gli rincresce forse che i draghi non abbiano scelto di guarire anche lui? si chiese Eragon, scacciando subito via quel pensiero. Oromis non sarebbe mai stato tanto meschino.
«Non occorre. Non è colpa tua se sono storpio.»
Mentre Eragon si sforzava di completare il terzo livello
della Rimgar, si rese conto che ancora gli mancavano l'equilibrio e la flessibilità degli elfi, due qualità che persino loro acquisivano solo grazie a un duro allenamento. In un certo senso, non gli dispiacevano quelle limitazioni, perché se fosse stato perfetto, che cos'altro gli sarebbe rimasto da conquistare?
Le settimane seguenti furono difficili per lui. Da una parte fece enormi progressi nell'addestramento, diventando sempre più padrone di argomenti che un tempo lo confondevano. Trovava ancora stimolanti le lezioni di Oromis, ma non aveva più la sensazione di annegare in un mare di' inadeguatezza. Leggeva e scriveva con maggior fluidità, e la sua forza accresciuta gli consentiva di evocare incantesimi per cui era necessaria tanta energia da uccidere un qualsiasi essere umano. La sua forza lo rese anche consapevole di quanto debole fosse Oromis rispetto agli altri elfi. Eppure, nonostante tutto, Eragon avvertiva un profondo sconforto. Per quanto si sforzasse di dimenticare Arya, ogni giorno che passava aumentava il suo struggimento, un dolore aggravato dal fatto di sapere che lei non voleva più vederlo né parlare con lui. Inoltre, aveva la sensazione che un'inesorabile tempesta si stesse addensando all'orizzonte, una tempesta che minacciava di scatenarsi da un momento all'altro, per spazzare la terra, distruggendo ogni cosa sul suo cammino.
Saphira condivideva il suo disagio. Disse: Il mondo si sta assottigliando, Eragon. Presto si spezzerà e la follia scoppierà. Quello che senti tu è ciò che sentono i draghi e gli elfi: l'inesorabile avanzata di un destino oscuro, mentre la fine della nostra epoca si avvicina. Piangi per coloro che moriranno nel caos che consumerà Alagaesia. E spera che ci sia data la possibilità di conquistare un futuro più radioso con la forza della tua spada e del tuo scudo, e quella delle mie zanne e dei miei artigli.
Visioni vicine e lontane
Evenne il giorno in cui Eragon andò nella radura vicino al capanno di Oromis, si sedette sul ceppo bianco al centro della conca muscosa, e quando aprì la mente per osservare le creature che lo circondavano percepì non soltanto gli uccelli, gli animali e gli insetti, ma anche le piante della foresta.
Le piante possedevano un diverso tipo di coscienza, lenta, deliberata e priva di un fulcro, ma a loro modo erano consapevoli quanto Eragon dell'ambiente attorno. Le deboli pulsazioni delle loro coscienze impregnavano la galassia di stelle che gli vorticava dietro le palpebre chiuse ogni scintilla rappresentava una vita - in un bagliore morbido e onnipresente. Perfino il suolo più arido brulicava di organismi; la terra stessa era viva e senziente. La vita intelligente, concluse, era dappertutto.
Mentre Eragon si immergeva nei pensieri e nelle sensazioni degli esseri intorno a lui, riuscì a raggiungere uno stato di pace interiore così profondo che in quel momento cessò di esistere come individuo. Si lasciò essere una non-entità, un vuoto, un ricettacolo delle voci del mondo. Nulla sfuggiva alla sua attenzione, perché la sua attenzione non era concentrata su nulla.
Lui era la foresta e i suoi abitanti.
È così che si sente un dio? si chiese quando tornò in se stesso.
Abbandonò la conca e cercò Oromis nel capanno. S'inginocchiò davanti all'elfo e disse: «Maestro, ho fatto come mi hai chiesto. Ho ascoltato finché non ho sentito più nulla.»
Oromis smise di scrivere e con espressione meditabonda guardò Eragon. «Raccontami.» Per un'ora e mezza, Eragon elargì eloquenti descrizioni di ogni aspetto delle piante e degli animali che popolavano la conca, finché Oromis alzò la mano e disse: «Mi hai convinto; hai sentito tutto quello che c'era da sentire. Ma hai capìto tutto?» «No, maestro.»
«Com'è giusto che sia. La comprensione verrà con l'età... Ben fatto, Eragon-finiarel. Ottimo lavoro. Se fossi stato mio allievo a Ilirea, prima che Galbatorix salisse al potere, ti saresti appena laureato dal tuo apprendistato e saresti stato considerato un membro del nostro ordine, intitolato agli stessi diritti e privilegi del più anziano dei Cavalieri.» Oromis si alzò a fatica dalla sedia, barcollando.
«Offrimi il tuo braccio, Eragon, e aiutami a uscire. Il mio corpo tradisce la mia volontà.»
Eragon corse al fianco del maestro e ne sostenne il peso leggero, mentre Oromis lo conduceva presso il ruscello che scorreva lungo il ciglio della rupe di Tel'naeir. «Ora che hai raggiunto questo livello di istruzione, posso insegnarti uno dei più grandi segreti della magia, un segreto che persino Galbatorix potrebbe non conoscere. È la nostra migliore speranza di contrastare il suo potere.» Lo sguardo dell'elfo s'indurì. «Qual è il prezzo della magia, Eragon?» «L'energia. Un incantesimo richiede la stessa quantità di energia che ci vorrebbe per realizzare il compito con mezzi normali.»
Oromis annuì. «E da dove deriva l'energia?»
«Dal corpo di colui che evoca la magia.»
«Soltanto?»
Eragon si lambiccò il cervello davanti alle terribili implicazioni della domanda di Oromis. «Vuoi dire che può venire da altre fonti?»
«Precisamente. È quello che accade quando Saphira ti aiuta con un incantesimo.»
«Sì, ma lei e io condividiamo un legame particolare» protestò Eragon. «È questa la ragione per cui posso attingere alla sua forza. Per farlo con qualcun altro, dovrei entrare...» Esitò, comprendendo dove Oromis voleva arrivare. «Dovresti entrare nella coscienza dell'essere o degli esseri che ti forniranno energia» disse Oromis, concludendo il pensiero di Eragon. «Oggi hai dimostrato che sei in grado di farlo anche con le più minuscole forme di vita. Ora...» L'elfo s'interruppe e tossì, premendosi una mano contro il petto, poi riprese: «Voglio che sollevi una sfera d'acqua dal torrente, usando soltanto l'energia che riesci a estrarre dalla foresta che ti circonda.» «Sì, maestro.» Mentre Eragon dilatava la mente per raggiungere le piante e gli animali vicini, sentì la mente di Oromis sfiorare la sua per osservare e giudicare i suoi progressi. Aggrottando la fronte nello sforzo della concentrazione, attinse dall'ambiente la forza necessaria e la trattenne dentro di sé finché non fu pronto a liberare la magia... «Eragon! Non prenderla da me! Sono già abbastanza debole così.»
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