Volodyk - Paolini2-Eldest
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Volodyk - Paolini2-Eldest краткое содержание
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Al grido di "Cessato allarme!", Uthar rilassò la stretta sulla ruota del timone. «Se questo è il massimo che riesce a fare il loro stregone, allora direi che non abbiamo nulla da temere.»
«Riusciremo a superare l'Occhio del Cinghiale, non è vero?» chiese Roran, aspettando con ansia una conferma alle sue speranze.
Uthar squadrò le spalle e sogghignò, orgoglioso e al tempo stesso incredulo. «Non per questo ciclo, ma ci siamo vicini. Non ci allontaneremo da quel mostro finché la marea non si sarà placata. Vai a dire a Bonden di rallentare il ritmo; non voglio che perdano i sensi ai remi se non è necessario.»
E così fu. Roran fece un altro turno ai banchi; il tempo di tornare sul ponte e si accorse che il gorgo stava diventando più piccolo. L'ululato spettrale del vortice si era ridotto al consueto rumore del vento; l'acqua aveva assunto un aspetto placido e piatto che mai avrebbe lasciato supporre la violenza che in genere si scatenava in quel punto; e la nebbia che aveva vorticato sull'abisso si dissolse sotto i caldi raggi del sole, lasciando l'aria tersa e limpida come vetro. Dell'Occhio del Cinghiale, notò Roran quando recuperò il cannocchiale dai banchi, non restava altro che il disco di schiuma giallastra che ruotava sull'acqua.
Al centro della spuma gli parve di scorgere tre alberi spezzati e una vela nera che continuavano a galleggiare in un circolo senza fine. Ma forse era soltanto uno scherzo della sua immaginazione.
O almeno fu ciò che si disse.
Elain lo raggiunse, una mano posata sul ventre gonfio. Con una vocina sottile, gli disse: «Siamo stati fortunati, Roran. Molto più fortunati di quanto avessimo ragione di sperare.»
«Già» mormorò lui.
Verso Aberon
Sotto le ali azzurre di Saphira, la densa foresta si estendeva da un orizzonte pallido all'altro, scolorendo via via dal più intenso dei verdi fino a un porpora sbiadito e caliginoso. Balestrucci, corvi e altri uccelli dei boschi volteggiavano sulle chiome dei pini nodosi, lanciando acute strida d'allarme non appena scorgevano Saphira. La dragonessa sorvolava bassa il fogliame per proteggere i due passeggeri dalle temperature artiche delle maggiori altitudini. Era la prima volta, da quando Saphira era sfuggita ai Ra'zac sulla Grande Dorsale, che lei e Eragon avevano l'opportunità di volare insieme per una grande distanza, senza doversi fermare ad aspettare compagni che viaggiavano via terra. Saphira in particolar modo si godeva il volo, compiaciuta di poter mostrare a Eragon come le lezioni di Glaedr avessero contribuito ad aumentare la sua forza e la sua resistenza.
Dopo l'iniziale imbarazzo, Orik disse a Eragon: «Dubito che mi troverò mai a mio agio per aria, ma capisco perché a te e a Saphira piace tanto. Volare ti fa sentire libero e indipendente, come un falco dalla vista acuta che caccia le prede. Mi batte il cuore, mi batte!»
Per alleviare la noia del viaggio, Orik cominciò a giocare agli indovinelli con Saphira. Eragon si astenne dalla gara perché non era mai stato bravo con gli enigmi; il pensiero macchinoso necessario a risolverli gli sfuggiva. In questo, Saphira era molto più brava di lui. Come tutti i draghi, era affascinata dagli indovinelli e li trovava piuttosto facili da risolvere.
«Gli unici indovinelli che conosco» disse Orik «sono nel linguaggio dei nani. Farò del mio meglio per tradurli, ma il risultato potrebbe suonare grossolano e poco scorrevole.» Poi disse:
Se son alta ho lunga vita, Ma se bassa son finita. Su di me risplende il fuoco, Se Urùr fiata duro poco. Non è giusto, ribattè Saphira. Non so niente dei vostri dei. Eragon non dovette ripetere le sue parole, perché Orik le aveva dato il permesso di proiettarle direttamente nella sua mente.
Orik rise. «Ti arrendi?»
Mai. Per qualche minuto, l'unico suono fu il rumore delle sue ali, finché non chiese: È la candela? «Esatto.»
Una piccola nube di fumo ardente investì la faccia di Orik ed Eragon quando la dragonessa sbuffò. Non me la cavo bene con questi indovinelli. Non sono stata dentro una casa da quando il mio uovo si è schiuso. Ho difficoltà a risolvere gli enigmi che riguardano oggetti domestici. Poi fu il suo turno.
Come si definiscono le più fedeli compagne dei draghi?
L'indovinello si rivelò piuttosto ostico per il nano. Orik borbottò e mugugnò e digrignò i denti per la frustrazione. Dietro di lui, Eragon sogghignava, perché vedeva la risposta a chiare lettere nella mente di Saphira. Alla fine, Orik disse: «Be', allora? Mi dichiaro sconfitto.»
La parola è composta E il suono s'accosta, Le ali è la risposta.
Fu la volta di Orik di protestare: «Non è giusto! Questa non è la mia lingua di origine. Non puoi aspettarti che conosca questi giochi di parole!»
Era un indovinello normalissimo.
Eragon guardò i muscoli del collo di Orik tendersi e gonfiarsi mentre il nano faceva scattare la testa avanti. «D'accordo, se la metti su questo piano, Zannediferro, allora risolvimi questo indovinello che conoscono perfino i bambini dei nani.»
Mi chiamano Forgia di Morgothal e Grembo di Helzvog. La Figlia di Nordvig nascondo morte grìgia diffondo, Col Sangue di Helzvog faccio nuovo il mondo. Chi sono?
Continuarono su questo tono, scambiandosi indovinelli di crescente difficoltà, mentre la Du Weldenvarden scorreva sotto di loro. Di tanto in tanto, nella volta verdeggiante si apriva uno squarcio che rivelava bagliori argentei, tratti dei numerosi fiumi che serpeggiavano per la foresta. Intorno a Saphira, le nuvole assumevano forme dall'architettura fantastica: archi, cupole, pilastri, bastioni scanalati, torrioni alti come montagne; e poi colline e valli immerse in una luce fiammante che dava a Eragon l'impressione di volare in un sogno.
Saphira fu così veloce che al calar della sera si erano già lasciati la Du Weldenvarden alle spalle e avevano raggiunto i prati verdeggianti che separavano la grande foresta dal Deserto di Hadarac. Si accamparono fra l'erba e si strinsero intorno a un piccolo falò, sentendosi terribilmente soli sulla terra. Erano scuri in volto e parlarono poco, perché le parole non facevano che sottolineare il loro ruolo insignificante in quella landa deserta e desolata. Eragon approfittò della sosta per immagazzinare energia nel rubino che ornava il pomo di Zar'roc. La gemma assorbì tutto il potere che le infuse, come anche quello di Saphira, che si prestò volentieri. Eragon giunse alla conclusione che ci sarebbero voluti parecchi giorni per saturare sia il rubino che i dodici diamanti nascosti nella cintura di Beloth il Savio.
Stanco per lo sforzo, si avvolse nelle coperte, si sdraiò accanto a Saphira e si abbandonò al suo stato di dormiveglia, dove i fantasmi della notte giocavano a rincorrersi con le stelle che brillavano in cielo.
Poco dopo aver ripreso il viaggio, l'indomani mattina, l'erba ondeggiante cedette il passo a un'arida prateria dagli steli sempre più secchi e sporadici, che alla fine furono sostituiti da un terreno brullo e bruciato dal sole, dove non cresceva niente se non le piante più resistenti. Comparvero le prime dune rosseggianti. Dall'alto sembrava di sorvolare una serie di onde che si susseguivano verso una costa remota.
Quando il sole cominciò a calare, Eragon notò in lontananza, a est, un gruppo di montagne e capì che si trattava delle Du Fells Nàngoròth, dove i draghi selvatici andavano per accoppiarsi, allevare i cuccioli e infine morire. Dobbiamo andarci, un giorno o l'altro, disse Saphira, seguendo il suo sguardo.
Sì.
Quella notte, Eragon sentì la solitudine più forte che mai, perché si erano accampati nella regione più desolata del Deserto di Hadarac, dove nell'aria c'era così poca umidità che le sue labbra si screpolarono presto, anche se le spalmava spesso di nalgask. Percepiva pochissima vita nel suolo, soltanto un pugno di miserabili piante, qualche insetto e qualche lucertola.
Come aveva fatto quando erano fuggiti da Gil'ead attraverso il deserto, Eragon trasse acqua dal suolo per riempire le borracce, e prima di consentire alla sabbia di riassorbire l'acqua, la usò per divinare Nasuada e vedere se i Varden erano già stati attaccati. Con sollievo, scoprì di no.
Il terzo giorno da quando erano partiti da Ellesméra, il vento prese a soffiare alle loro spalle, facendo diventare Saphira ancora più veloce e trasportandoli ai confini del deserto.
Sorvolarono una carovana di nomadi che indossavano lunghi mantelli per proteggersi dal calore. Gli uomini inveirono nel loro rozzo linguaggio e agitarono le spade e le lance contro Saphira, ma nessuno osò scagliare una freccia.
Eragon, Saphira e Orik bivaccarono quella notte nelle propaggini meridionali della Foresta Imbiancata che costeggiava il lago Tùdosten, così chiamata perché composta quasi soltanto da faggi, salici e pioppi tremuli. In contrasto con la perenne penombra che regnava sotto i pini della Du Weldenvarden, la Foresta Imbiancata era inondata di luce, di canti di allodole e del gentile fruscìo delle foglie verdi. Gli alberi emanavano un'aria giovane e spensierata, ed Eragon fu felice di trovarsi lì. E sebbene fosse sparita ogni traccia del deserto, il clima era molto più caldo rispetto a quanto Eragon era abituato in quel periodo dell'anno. Sembrava più estate che primavera.
Da lì volarono diretti ad Aberon, la capitale del Surda, guidati dalle indicazioni che Eragon trasse dai ricordi degli uccelli che incontrarono. Saphira non fece nulla per nascondersi durante il tragitto, e spesso udirono grida di stupore e di allarme levarsi dai villaggi che sorvolava.
Era tardo pomeriggio quando giunsero ad Aberon, una città bassa e fortificata che si sviluppava intorno a un picco roccioso, in un panorama altrimenti piatto. In cima al picco sorgeva il Castello Farnaci. L'irregolare cittadella era protetta da tre cinte di mura concentriche, numerose torri e, notò Eragon, centinaia di baliste costruite per abbattere i draghi. La calda luce ambrata del sole morente faceva risaltare i profili degli edifici di Aberon e illuminava una nuvola di polvere che si levava dal cancello ovest della città, dove una fila di soldati aspettava di entrare.
Mentre Saphira scendeva verso la corte interna del castello, Eragon entrò in contatto con la moltitudine di pensieri degli abitanti della capitale. Il frastuono dapprima lo confuse - come poteva ascoltare in cerca di nemici e restare vigile allo stesso tempo? - ma poi si rese conto che, come al solito, si era concentrato troppo sugli individui. Non doveva far altro che percepire le generali intenzioni della gente. Ampliò il suo raggio mentale, e le singole voci che reclamavano la sua attenzione si fusero in un flusso continuo di emozioni. Era come un velo impalpabile steso sul panorama, che si ondulava a seconda delle sensazioni delle persone e si gonfiava dove qualcuno era in preda a una forte passione. In questo modo, Eragon percepì l'allarme destato fra la gente dalla comparsa di Saphira. Attenta, le disse. Non voglio che ci attacchino.
La polvere si levò in piccoli mulinelli mentre Saphira batteva lentamente le ali per atterrare al centro del cortile, affondando gli artigli nel terreno per mantenere l'equilibrio. I cavalli legati nel cortile nitrirono di paura, suscitando un tale fracasso che Eragon decise di insinuarsi nelle loro menti per calmarli con dolci parole nell'antica lingua. Eragon smontò dopo Orik, tenendo d'occhio i molti soldati schierati lungo i merli e le minacciose baliste. Non temeva le armi, ma non aveva alcun desiderio di essere coinvolto in uno scontro con i suoi stessi alleati.
Un drappello di dodici uomini, alcuni dei quali erano soldati armati, uscì dal maschio per correre verso Saphira. Erano capitanati da un uomo alto con la pelle scura come quella di Nasuada, la terza persona con la pelle di quel colore che Eragon avesse incontrato. Fermandosi a dieci passi di distanza, l'uomo s'inchinò - come gli altri - e poi disse: «Benvenuto, Cavaliere. Io sono Dahwar, figlio di Kedar. Sono il siniscalco di re Orrin.»
Eragon inclinò la testa. «E io sono Eragon Ammazzaspettri, figlio di nessuno.»
«E io Orik, figlio di Thrifk.»
E io Saphira, figlia di Vervada, disse Saphira, usando Eragon come portavoce.
Dahwar s'inchinò di nuovo. «Mi scuso se non ci sono dignitari di più alto rango a ricevere ospiti del vostro prestigio, ma re Orrin, ledy Nasuada, e tutti i Varden sono da tempo in marcia per affrontare l'esercito di Galbatorix.» Eragon annuì. Se l'era aspettato. «Hanno lasciato ordine che se tu fossi venuto a cercarli, avresti dovuto unirti a loro direttamente, perché la tua presenza è indispensabile per avere una speranza di vittoria.»
«Puoi mostrarci su una mappa dove possiamo trovarli?» chiese Eragon.
«Ma certo, mio signore. Mentre mando a prenderla, non gradiresti cercare un riparo da questo calore e qualche rinfresco?»
Eragon fece di no con la testa. «Non abbiamo tempo da
perdere. Per giunta, non sono io che ho bisogno della mappa, ma Saphira, e dubito che lei entrerebbe nel vostro palazzo.»
Questo parve cogliere il siniscalco di sorpresa. Battè le palpebre e fece scorrere lo sguardo su Saphira, poi disse: «Naturalmente, mio signore. A ogni buon conto, la nostra ospitalità è a vostra disposizione. Se c'è qualcosa che tu e i tuoi compagni desiderate, non esitate a chiedere.»
Per la prima volta, Eragon si rese conto che poteva dare ordini e aspettarsi che venissero eseguiti. «Ci servono viveri per una settimana. Per me soltanto frutta, verdure, farina, formaggio, pane... cose del genere. E acqua per riempire le borracce.» Rimase colpito quando Dahwar non lo interrogò sulla mancanza di carne. Orik aggiunse la sua richiesta di carne salata, prosciutto e altri prodotti di analoga natura.
Con uno schiocco di dita, Dahwar mandò due servitori nel maschio a prendere le provviste. Mentre tutti aspettavano che tornassero, chiese: «Dalla tua presenza qui, Ammazzaspettri, posso desumere che il tuo addestramento con gli elfi è stato completato?»
«Il mio addestramento non finirà finché vivrò.»
«Capisco.» Poi, dopo un momento, Dahwar disse: «Ti prego di scusare la mia impertinenza, signore, perché non sono avvezzo agli usi dei Cavalieri, ma tu sei umano? Mi avevano detto che lo eri.»
«Certo che lo è» borbottò Orik. «È stato... cambiato. E tu dovresti rallegrarti per ciò che è diventato, altrimenti ci troveremmo in guai ben peggiori.» Dahwar fu abbastanza discreto da non indagare oltre, ma dai suoi pensieri Eragon arguì che il siniscalco avrebbe pagato uno sproposito per avere ulteriori dettagli: qualunque informazione su Eragon e Saphira era importante nel governo di Orrin.
Il cibo, l'acqua e la mappa arrivarono poco dopo, fra le braccia di due paggi dagli occhi sgranati. Su ordine di Eragon, posarono gli oggetti davanti a Saphira con aria terrorizzata, poi si rintanarono alle spalle di Dahwar. Inginocchiatosi per terra, Dahwar dispiegò la mappa, che raffigurava il Surda e i territori confinanti, e tracciò una linea in direzione nordovest, da Aberon a Cithri. «Le ultime notizie» disse «ci riferiscono che re Orrin e ledy Nasuada si sono fermati qui per gli approvvigionamenti. Non avevano intenzione di fermarsi, però, perché l'Impero avanza verso sud lungo il fiume Jiet, e volevano trovarsi già sul posto all'arrivo dell'armata di Galbatorix. A questo punto i Varden potrebbero trovarsi ovunque, fra la città di Cithri e il fiume Jiet. È soltanto la mia umile opinione, ma direi che il posto migliore per cercarli sono le Pianure Ardenti.»
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